Prefazione all’opuscolo “Operai e Magistratura – L’esperienza del licenziamento dei 5 operai FCA di Pomigliano

SCARICA L’INTERO OPUSCOLO La vicenda del licenziamento di Mignano e degli altri operai del Comitato ci fornisce l’occasione per esprimere qualche giudizio sulla situazione sociale degli operai e dei problemi...

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La vicenda del licenziamento di Mignano e degli altri operai del Comitato ci fornisce l’occasione per esprimere qualche giudizio sulla situazione sociale degli operai e dei problemi che si devono affrontare.
La prima domanda affronta la questione del rapporto fra i licenziati e l’insieme degli operai, loro compagni di lavoro, che in questo stesso periodo lavorano a Pomigliano. Gli stessi che il Comitato ha voluto sensibilizzare e mobilitare nella lotta contro la cassa integrazione, contro Marchionne il padrone. Il legame è quasi inesistente bisogna riconoscerlo, il sindacato ufficiale ha costruito attorno ai compagni un cordone sanitario e il padrone con pesanti minacce ha costretto la maggioranza degli operai a far finta di non vedere. Tanto è vero che le proteste contro i licenziamenti sono fatti isolati, forti, eclatanti ma individuali. Non riconoscere questo dato di fatto e coprirlo con mille parole antagoniste non risolve il problema vero che consiste nel rapporto fra operai combattivi e la massa degli operai, rapporto che nasce spontaneamente negli scontri col padrone ma che viene ripetutamente reciso e annullato. Rimane il rispetto per gli operai combattivi, se ne ricordano le gesta, ma nient’altro.
Le ragioni di questo distacco sono tante, noi ne evidenziamo solo due. La prima: la mancanza di una coalizione operaia organizzata che è la ramificazione necessaria per gestire le lotte e difendere nella necessità, gli operai più in vista. La seconda: la capacità degli operai più combattivi di tenere i piedi per terra, guidare gli operai su strade percorribili, le fantasie possono affascinare, ma la dura realtà dello scontro col padrone le cancella d’incanto. Qui si pone una questione di una estrema serietà, gli operai che si espongono, che si mettono in prima fila a quale forma ideologica o culturale fanno riferimento? A quali strumenti critici attingono? La critica alla società viene espressa con forza dalla piccola borghesia rovinata, questa produce giudizi severi sulla società corrotta, contro finanze e banche, ma quando si tratta del capitalista industriale c’è sempre una titubanza, gli si chiede che investa in formazione ricerca, che dia da lavorare. In mancanza di una forte tendenza critica teorica e politica di parte operaia al sistema è quasi naturale che gli esponenti più in vista del fronte operaio peschino nelle fantasie della piccola borghesia. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Quando gli operai combattivi si staccano dai problemi di fabbrica diventano dei chiacchieroni riformisti, quando vogliono mettersi in evidenza e rincorrono i modelli televisivi dei leader da talk show. E si bruciano, perché i borghesi che gestiscono gli spazi della comunicazione di massa non sanno cosa farsene, la massa degli operai, quando percepisce che vogliono usare loro per far carriera, li abbandonano velocemente.
La seconda domanda deriva dalla constatazione che nessuna classe sociale può fare ameno di produrre nelle sue fila esponenti che la rappresentino a livello della società. La coscienza e la forza di questa rappresentanza, la sua concreta forma dipende da tanti fattori che non analizziamo qui, però una cosa è chiara, anche in questi oscuri anni in ogni fabbrica o luogo di lavoro si sono prodotti individui che hanno ingaggiato una lotta con contenuti di classe contro i loro padroni, che hanno trascinato in queste lotte settori importanti di operai, che non hanno scelto di fare i sindacalisti di comodo, che non hanno puntato ai privilegi dei delegati collaborazionisti, gente seria che ha resistito alla repressione del padrone e dei dirigenti sindacali venduti. Tanti sono stati licenziati e ridotti al silenzio. Formuliamo a questo punto la seconda domanda. Perché questi individui pur essendo tutti membri di una stessa classe, lottando contro lo stesso nemico non si sono coalizzati? Uniti fra loro in un’unica organizzazione? E qui si pone il grande problema tante volte sottovalutato, quello della concorrenza fra gli operai stessi.
Vendiamo una merce. La forza lavoro, la vendiamo come individui isolati e come tali entriamo nel processo lavorativo. La crisi ha reso tanta di questa merce superflua ai bisogni di valorizzazione del capitale, ognuno cerca di venderla come può e al prezzo che può. Il sindacato in generale avrebbe almeno dovuto mettere un limite a questa concorrenza, capire quanto fosse pericolosa la sua azione nei confronti della contrattazione collettiva e invece ha seguito il vento. Per i giovani anche il salario di ingresso, l’importante è lavorare: così il sindacato ha incarnato la necessità del padrone e la ha resa operativa. Se ne sono inventate di tutti colori, il salario di produttività per ogni azienda, imponendo una coalizione operaia a rovescio, una spinta reciproca a farsi sfruttare di più per raggiungere collettivamente il famoso premio di risultato. Poi c’è la concorrenza fomentata apposta fra gli operai stranieri e quelli italiani, per tenere ad entrambi i salari bassi, ed infine la pressione degli operai irregolari tenuti in condizioni insopportabili. La concorrenza fra operai, che il sindacato ha accettato e gestito come sintomo di una modernità industriale, si ritorce contro il sindacato stesso. Il contratto nazionale di lavoro non si rinnova se non a condizione di svuotarlo, nemmeno le minime condizione di prezzo e di uso della forza lavoro possono più essere definite, singolo operaio contro singolo padrone è la regola della concorrenza nel nuovo mercato del lavoro. Non ci si poteva illudere che questa concorrenza non si manifestasse anche fra gli operai più combattivi, che non si esprimesse in quel maledetto modo di pensare per cui ognuno è autosufficiente, che non ha bisogno di nessun altro per condurre e dare un senso alle lotte che conduce, che non ha bisogno di nessun riferimento critico, di nessuna teoria o analisi della società, che basti quello che ha appreso malamente per televisione. In sintesi la concorrenza fra i dispersi “capi”operai li ha tenuti lontani gli uni dagli altri, lontani dal tentare come operai una propria organizzazione sociale indipendente. La lotta alla concorrenza fra gli operai è essenziale. Il valore dell’unità fra coloro che combattono giornalmente una guerra, ora aperta ora sotterranea, contro i padroni è essenziale. La forza della coalizione operaia costruita per battere la concorrenza influenzerà anche i “capi” e li spingerà a superare il protagonismo e capire, alla fine, che il disciplinarsi in un’unica organizzazione politica indipendente degli operai è la scelta più conseguente.
Torniamo così a Mignano ed ai suoi compagni licenziati, abbiamo voluto produrre questo opuscolo sulle vicende legali che li hanno coinvolti ma non per mera solidarietà, i borghesi illuminati sono più bravi di noi a denunciare certe nefandezze, a solidarizzare pubblicamente, hanno strumenti per farsi sentire. Noi abbiamo voluto mettere in chiaro il significato di questi licenziamenti in rapporto alla condizione degli operai come schiavi moderni, abbiamo voluto mettere in luce come le leggi poggino su determinati rapporti fra le classi ed ironia della realtà, più la libertà di parola viene sventolata come la bandiera della democrazia più risulta evidente che agli operai non è concesso nemmeno la miserabile possibilità di sbeffeggiare, a parole, il proprio padrone. Questa scoperta non risolverà il problema di Mignano e di tanti di noi colpiti dai padroni, non singolarmente. Ma abbiamo detto che il problema è la coalizione operaia, la lotta alla concorrenza che ci divide, il disciplinarci in un’unica organizzazione operaia. Che l’infame sentenza contro gli operai licenziati possa essere l’inizio di questa nuova fase.

E’ successo l’inaspettato. Il tribunale di Napoli ha rovesciato la sentenza di Nola, ha dato ragione agli operai e annullato i licenziamenti ordinando alla Fiat il loro reintegro. A questo risultato hanno contribuito diversi fattori, noi ne mettiamo in evidenza due. Il primo: la cocciutaggine di Mimmo e degli altri del Comitato che ha richiamato l’attenzione sul significato e il contenuto del loro licenziamento. Non si trattava solo di un provvedimento disciplinare illegittimo ma investiva il rapporto più generale fra la libertà d’espressione e di critica riconosciuta costituzionalmente a tutti i cittadini e la possibilità concreta degli operai di esercitarla nei confronti dei loro padroni.
Il secondo: a Nola giudici ottusi e provinciali non hanno avuto dubbi, la figura del padrone è sacra e non può essere toccata dalla critica corrosiva dei suoi schiavi. A Napoli, giudici più accorti ed intelligenti, a fronte di manifestazioni di protesta ed alle espressioni di solidarietà di intellettuali e politici di peso in difesa degli operai hanno deciso che non era né necessario, né sostenibile riconoscere la legittimità di un licenziamento solo perché un padrone, per quanto potente, Marchionne, era stato criticato pubblicamente.
La Fiat, probabilmente, ora ricorrerà in Cassazione per rovesciare questa sentenza. Inizierà con le grandi manovra per dimostrare che con la loro sentenza i giudici di Napoli hanno aperto la strada a chissà quale terribile libertà d’azione per gli schiavi salariati. La Fiat è potente economicamente e mille fili legano questi signori industriali ai magistrati, sono legami palesi o nascosti o solo genericamente fra borghesi.
Ora inizia per noi una nuova fase dello scontro, gli intellettuali che hanno solidarizzato con gli operai sono stati una carta importante, un loro sempre più vasto intervento è necessario per sollevare una maggiore attenzione nell’opinione pubblica sulla condizione lavorativa e sociale di quei milioni di moderni schiavi industriali sepolti nelle fabbriche, nei cantieri e nei campi.
La sentenza di Napoli apre un’altra possibilità, una integrazione più forte e matura fra gli operai che hanno resistito in questi anni e la massa dei loro compagni di lavoro, c’è la possibilità di superare quel muro che i sindacati ufficiali filopadronali hanno cercato di ergere attorno a Mimmo e compagni per isolarli. La sentenza di reintegro ha dato a questi sindacati di comodo uno schiaffo sul muso, davano per scontata la vittoria del loro ammirato padrone, del signor Marchionne ma è stato tutto il contrario.
Se la Cassazione dovrà affrontare la questione lo dovrà fare con una crescente pressione operaia proveniente direttamente dalle fabbriche Fiat, dovrà affrontare il problema della libertà di espressione misurandosi con argomentazioni di intellettuali e giuristi che si sono schierati e si schiereranno con gli operai. Produrre queste condizioni è il lavoro che abbiamo di fronte.

Enzo Acerenza

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