Sentenza Mignano: un monumento alla schiavitù moderna degli operai

  Scarica qui PDF Sentenza Mignano: un monumento alla schiavitù moderna degli operai Critica alla seconda sentenza di Nola di Enzo Acerenza   La sentenza del 05/04/2016 n° 993/2016 del...

 

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Sentenza Mignano: un monumento alla schiavitù moderna degli operai

Critica alla seconda sentenza di Nola

di Enzo Acerenza

 

La sentenza del 05/04/2016 n° 993/2016 del Tribunale di Nola sul licenziamento di Mimmo Mignano e di altri quattro operai è un monumento alla schiavitù moderna degli operai.

Da questo momento ogni operaio deve sapere che, in quanto vende al padrone le sue braccia per un determinato tempo, egli è suddito di questo non solo per le ore che lavora ma per tutto il tempo in cui vive. In quanto come operaio sono un lavoratore subordinato, sono subordinato per 24 ore al giorno al padrone anche se utilizza le mie braccia solo per 8. Me ne paga 8 ma sono sotto il suo controllo per 24. Nella sentenza in questione il giudice ci ricorda che come lavoratore subordinato sono tenuto ad una particolare condotta non in quanto cittadino in generale ma in quanto sono in costanza di un rapporto di lavoro. Non devo rispondere al padrone per le azioni compiute durante lo svolgimento della prestazione lavorativa ma per ogni azione compiuta durante la giornata. Come operaio sono prigioniero del padrone, uno schiavo. Il giudice non ha dubbi: essere durante l’orario di lavoro o essere per strada non cambia nulla, si risponde comunque dei propri comportamenti al proprio padrone.

Pensavamo che al padrone bastasse tenerci sottomessi nel conciarci la pelle sul lavoro, ci siamo sbagliati. Ci segue anche fuori dalla fabbrica e vuole assoluta sottomissione anche fuori. Tant’è che i fatti contestati a Mignano e agli altri si sono svolti per strada.

Il giudice si spinge anche ad esprimere un appunto sul territorio ove Mignano e gli altri avrebbero compiuto la famosa azione “che ha arrecato un grave nocumento morale all’azienda”. Lo schiavo, oltre ad aver compiuto l’atto davanti alla fabbrica, lo ha addirittura compiuto anche davanti alla sede regionale della RAI di Napoli, così recita la sentenza. Per carità, si capisce, finché certe proteste si fanno in periferia si possono anche sopportare, ma davanti alla sede della televisione è imperdonabile. Gli schiavi con le loro proteste stiano nei loro ambienti, nelle lande sperdute delle città, per nessuna ragione cerchino di farsi vedere o sentire al centro, dove si forma la pubblica opinione. Qualcuno potrebbe scoprire che esistono ancora.

Il giudice si avventura senza paura nel definire il contenuto e la natura dell’attività sindacale per poter escludere l’azione di Mignano e degli altri operai che erano con lui, dall’ambito di una legittima azione sindacale. Confonde il comitato di lotta dei cassintegrati e licenziati FIAT con un comitato di giocatori di bocce o pescatori. Per questo attento conoscitore di cose sindacali, l’attività del Comitato o gruppo non ha niente a che fare con lo specifico rapporto di lavoro che li lega alla Fiat. Il giudice non sa che l’attività sindacale viene prima dalla specifica forma organizzativa che assume, essa è propria del lavoratore che si coalizza per difendersi nel rapporto di lavoratore subordinato. L’attività sindacale non si identifica con un’organizzazione sindacale specifica ma per le finalità che si propone. Il Comitato in questione è una forma organizzata di attività sindacale, che tratta di cassintegrazione e licenziamenti che sono per loro natura prima di tutto problemi “sindacali”.

Il giudice è fautore invece di una vecchia tesi, tornata ora di moda, che solo il sindacato riconosciuto come tale da padroni e governi, una specie di sindacato di Stato, può svolgere attività sindacale. Andava di moda nel ventennio.

A questo punto il giudice entra nell’annoso problema della libertà di critica dello schiavo che non deve arrecare grave nocumento morale al proprio padrone. Lo schiavo non chiede un’astratta libertà di critica, non rivendica la liberta di dire ciò che pensa al padrone, rivendica invece la possibilità di denunciare ciò che lui è, rivendica la possibilità di rendere collettiva la sua presa di coscienza della schiavitù industriale a cui è sottomesso, rivendica la possibilità di chiamare il suo imprenditore padrone, di individuarlo come un detentore di schiavi. Siamo già in pericolo di arrecare un grave danno all’impresa, siamo già in pericolo di essere licenziati? Cosa c’entra la liberta di critica fatta dentro certi limiti, dell’uso di termini non offensivi ecc. delle notizie giornalistiche veritiere? Niente.

Il problema va posto in altri termini. Ci dobbiamo chiedere fino a quando l’attività di denuncia e di contrasto degli operai contro i padroni è possibile entro questo sistema di leggi? La risposta del giudice è semplice “fino a quando questa attività non produce grave nocumento morale e materiale al padrone”. Chi stabilirà questo limite? Sarà il giudice a stabilirlo e indicherà agli schiavi il grado di sottomissione che la società in quel momento impone loro . Finalmente la libertà di espressione trova il suo fondamento nella società reale. All’operaio subordinato questa libertà è data nei limiti che il suo padrone può accettare, altrimenti, se l’operaio passa il limite, potrà sempre correre dal magistrato a lamentarsi del danno morale e materiale che ne ha ricevuto e il giudice non farà altro che sanzionare lo schiavo. La sentenza in questione ci dice senza mezze misure che la legge è fatta dai padroni per i padroni, e la sua base sociale non cambia nemmeno quando per una serie di particolari circostanze una miserabile sentenza può darci ragione in quanto operai.

Veniamo al perno centrale del “riprovevole” atto compiuto da Mignano e altri.

Siamo nella realtà di una serie di suicidi di operai in cassa integrazione presi dalla disperazione, si suicidano mettendosi un cappio attorno al collo. Sono compagni di lavoro di Mignano che la Fiat ha sbattuto fuori dalla fabbrica, esiliati alcuni in reparti confino.

Come denunciare questo stato di cose, come rompere il silenzio di tutta la società su una tragedia del genere? La scelta è rappresentare, qui, nella finzione, lo stesso atto disperato, ma questa volta interpretato dal padrone (se è lecito chiamarlo così). Ora è il signor Marchionne che nella rappresentazione si suicida, lasciando un testamento in cui si ravvede della sua condotta.

Il giudice diventa, nella sentenza, un critico teatrale: la scena del suicidio del padrone è forte, troppo forte per il suo debole stomaco. Ma è solo una messa in scena di un suicidio, non dell’esecuzione di una sentenza emessa da un tribunale operaio. Il giudice tenta di confondere le acque aprendo alla possibilità che possa essere interpretata in altro modo da parte di terzi osservatori, ma è la rappresentazione del suicidio di Marchionne e non altro.

Il giudice è colpito perché gli schiavi non hanno diritto di rappresentare in questo modo il loro padrone, fa niente che è solo una messa in scena che vuole richiamare l’attenzione sugli operai della FIAT che si sono realmente appesi ad una corda cercando e trovando la morte presi dalla disperazione per la loro condizione di licenziati e cassintegrati. Ma il giudice non ha capito o non ha voluto capire il significato reale del manichino suicida. Questa messinscena restituisce al “suo” dottor Marchionne una sorta di umanità. Quest’ultimo è rappresentato come un uomo che, pentito per le sue azioni che hanno prodotto tanta disperazione, si spinge fino al suicidio. In fondo, lontano dall’arrecare grave monumento all’Amministratore Delegato, si realizza una specie di umanizzazione del padrone di schiavi. Ora è lui che si pente fino a suicidarsi e lascia un testamento, un manifesto affisso sul palo del patibolo di cartapesta. Il testamento si apre con “preso atto del mio piano fallimentare … chiedo a quelli che verranno dopo di me … che non siano attenti solo al profitto ma al benessere dei lavoratori licenziati e cassintegrati”. Quali frasi offensive, moralmente lesive ha letto il giudice? Si tratta piuttosto di un’antica illusione, che non sia il profitto la sola leva degli affari dei padroni ma ci sia anche spazio per i lavoratori. Roba da Francesco Papa.

Il testamento continua con un Marchionne morto che chiede “come atto di clemenza la riassunzione di tutti i 316 deportati a Nola” ed infine “chiede perdono delle morti che io ho provocato”. L’offesa della dignità morale del padrone suicida sta forse nel fatto che riconosca, sempre nella sceneggiata, di essere il responsabile delle morti che ha provocato. Marchionne ha una dignità morale molto fragile se basta questa trasposizione a far firmare la lettera di licenziamento del suo schiavo e trovare anche un giudice che ne sostenga la legittimità.

Se avevamo ancora dei dubbi sulla condizione di schiavitù in cui sono costretti a vivere gli operai dopo questa sentenza tutto diventa più chiaro, come operai siamo schiavi non in conseguenza di un rapporto di illegalità, di lavoro nero, senza regole. Siamo schiavi nell’ambito di applicazione della legge, siamo schiavi perché un giudice sulla base di precisi articoli di codice legittima questa condizione, siamo schiavi perché in quanto lavoratori subordinati la nostra condotta sarà valutata dal padrone “indipendentemente dalla circostanza in cui è stata compiuta” sul lavoro o fuori dal lavoro. Se siamo suoi dipendenti siamo suoi sudditi, semplicemente degli schiavi moderni.

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