FIAT Pomigliano: un esperimento pilota.

La crisi impone un enorme processo di “razionalizzazione capitalistica”. Chiudono fabbriche che “tirano poco”, si riducono spese “improduttive”, si organizzano i “rapporti di lavoro” su altre basi. I più tra...

La crisi impone un enorme processo di “razionalizzazione capitalistica”. Chiudono fabbriche che “tirano poco”, si riducono spese “improduttive”, si organizzano i “rapporti di lavoro” su altre basi.

I più tra i critici, individuano le colpe di tutto questo nello “strapotere” della finanza e delle banche. In realtà, il centro della crisi è ancora il processo di produzione: la fabbrica.

E’ la “accumulazione capitalistica” che sta andando in blocco, come innumerevoli altre volte nel corso degli ultimi due secoli. Ed è una crisi generale, quella più devastante.

Come in un “domino”, i pezzi che cadono si portano dietro gli altri. Le classi privilegiate della società, i ricchi, i borghesi, ogni volta pensano che la crisi sia ormai finita e che il percorso normale del profitto riprenda, e ogni volta un altro punto del mondo economico “globalizzato” cede trascinandosi dietro gli altri. Così, apertamente, dal 2008.

Di quello che sta accadendo, il vecchio Marx ci ha spiegato in innumerevoli testi e in modo scientifico il meccanismo più di un secolo e mezzo fa. Hanno sprecato questo tempo per convincerci che aveva torto, o era “ormai superato”. In realtà, possiamo riuscire a capire qualcosa in quello che sta succedendo, solo riferendoci ancora una volta a lui.

I più vedono solo “i sacrifici” da fare. E’ finita l’abbondanza, bisogna tirare la cinghia. In questa inquadratura di superficie, appare irrazionale che, in una società dove sono presenti milioni di ultraricchi, chi debba pagare siano quelli che hanno meno.

Rimanendo al buon Monti di casa nostra, vediamo che riduce le spese sociali (sanità, scuola, trasporto), taglia tra i pensionati, taglia nel pubblico impiego, dà la possibilità agli industriali di licenziare liberamente coloro che nelle fabbriche non si piegano e crea i presupposti per un clima di paura e sottomissione in ogni luogo di lavoro. Misure contro i grandi patrimoni non se ne vedono. La stessa “evasione fiscale”, fenomeno tipico del capitalismo che in Italia raggiunge però punte da primato, continua imperterrita dopo le paure transitorie scatenate dai controlli folcloristici della guardia di finanza. Le stesse spese che appaiono “inutili” ai più, (ma non ai padroni che guadagnano miliardi), come quelle militari e della TAV, non vengono tagliate.

Se ci sono “sacrifici” da fare e se la crisi, al più, dipende da una limitazione delle vendite e dalla mancanza di liquidità come ci dicono un po’ tutti, allora non si spiega il perché di una limitazione generalizzata dei redditi degli strati bassi della società (lavoratori dipendenti a basso reddito e operai). Se le cose stanno così, Monti dovrebbe seguire le proposte delle varie Rifondazione Comunista, o di Vendola, o di Grillo, o anche di Di Pietro, che gli dicono, nei modi garbati, che se la gente non ha i “soldi” non spende e la crisi peggiora. Che bisogna tassare i ricchi, attuare una “ridistribuzione” più equa dei redditi, per uscire dalla crisi.

Perché non lo fa? Prima di tutto perché quelli che sarebbero chiamati a pagare sono come lui, appartengono alla sua stessa classe. Ma il motivo principale è che, evidentemente il problema non sta lì.

Il vecchio Marx faceva notare che nelle crisi capitalistiche succedono cose stranissime. Mentre gli operai muoiono di fame, i magazzini sono pieni di ogni ben di dio che rimane invenduto.

Ancora oggi è così. Le merci non si vendono. I magazzini sono pieni di invenduti e invece, per la gente nei paesi avanzati scarseggia l’essenziale, e nei paesi arretrati si muore di fame.

Nella produzione agricola alle falde del Vesuvio si producono albicocche. Una produzione florida che è stata sempre fonte di arricchimento per i proprietari terrieri dell’area. Nel corso degli ultimi anni tutte le produzioni agricole di questa zona sono state sostituite dalla produzione di albicocche. Il prezzo di mercato è caduto. Si è passati da 10 centesimi al chilo di un mese fa, fino ai tre centesimi al chilo attuali. Nessuno le raccoglie perché aumenterebbero ulteriormente i costi di produzione senza nessuna possibilità di coprirli.

Tutto il versante interno del monte Somma è una distesa nauseante di albicocche lasciate a marcire sotto gli alberi.

In un supermercato di Pomigliano d’Arco, a meno di quattro chilometri, le albicocche vengono vendute con lo “sconto”, a un euro al chilo e a Napoli città a tre euro. Pochi le comprano perché non possono permettersele.

Quello che riportiamo come esempio è accaduto in modo più lento nel corso degli anni all’intero sistema capitalistico mondiale.

Si è prodotto troppo! Ma non troppo in assoluto. Troppo per quello che la gente può consumare pagando.

I padroni, (quelli che usano braccia altrui per “lavorare” e guadagnano sul lavoro degli altri), hanno visto i loro profitti cadere. L’abbondanza di merci sui mercati ha fatto cadere i prezzi, al punto da intaccare anche i profitti. A un certo punto non si è guadagnato più in modo “adeguato” rispetto al capitale anticipato e allora sempre più padroni si sono allontanati dalla produzione, hanno investito in “borsa”, a livello finanziario. Non più in auto, acciaio, beni di utilizzo comune, ma, senza passare per la produzione, hanno cercato di fare più soldi dai soldi che avevano.

A un certo punto, sono crollate anche le “borse” e l’intero sistema finanziario. E’ il 2008.

La crisi allora si è manifestata. Ed è stato un continuo peggioramento.

Le merci prodotte non si vendono. I profitti non si realizzano. Le fabbriche chiudono. Gli stati nazionali, per aiutare le proprie economie, s’indebitano.

Qual è la strada che i padroni hanno intrapreso per risolverla?

Tagliare le spese “inutili” e “improduttive” per dirottare i capitali disponibili in aiuto delle fabbriche e delle banche e costringere gli operai a lavorare di più, per meno soldi.

Guardiamo normalmente ad altro, ma se ci concentrassimo sulla fabbrica, il fulcro del sistema capitalistico, vedremmo gli industriali completamente impegnati nel tentativo di abbassare il costo delle proprie merci.

Abbassamento del costo, abbassamento del prezzo, maggiore competitività, vendite, ripresa dei profitti. Dietro l’eliminazione dei “diritti” sindacali nelle fabbriche, c’è la “sostanza”: l’aumento del lavoro operaio e la sua intensificazione.

Aumentano “i ritmi”, diminuiscono i tempi morti, i salari decrescono.

Su questa strada, i padroni pretendono che gli operai si facciano stritolare senza fiatare. Lo stato, organismo al di sopra delle “parti”, rappresentante di tutti, dei cittadini senza altra determinazione. “Democratico”. Mostra il suo vero volto: La macchina organizzativa e repressiva del capitale.

Lo stato, nel peggioramento determinato dalla crisi, dismette i panni del baraccone corrotto e gaudente del puttaniere di Arcore e assume quelli apertamente filo padronali, duri e ottusi, della Fornero. Si taglia tutto l’ “inessenziale”: pensioni, sanità, trasporti, stipendi dei dipendenti pubblici, scuola. Le risorse “liberate” vengono messe a disposizione di industriali e banchieri.

FIAT Pomigliano

Lo stabilimento FIAT di Pomigliano rappresenta l’esperimento pilota, ma anche l’emblema della nuova società “riformata” che è in testa a quelli che, come Monti, cercano di salvarne il contenuto, la bella vita dei ricchi, immiserendo gli altri.

E’ nella fabbrica il fulcro, è nella fabbrica dove si gioca la partita principale.

In questo gioco è Marchionne, l’amministratore delegato FIAT, e non Monti, il precursore.

Marchionne, di fronte alle prime grosse avvisaglie della crisi, nel 2007, sceglie lo stabilimento automobilistico più indisciplinato d’Europa, quello di Pomigliano e decide di farlo diventare un laboratorio sperimentale per capire fino a che punto è possibile, per i padroni, forzare la mano per piegare la resistenza operaia.

Il primo passaggio è quello di far sapere che non ci sono progetti di nuove auto per Pomigliano. La “149”, l’unico nuovo modello precedentemente programmato per Pomigliano, sarà fatto a Cassino.

Il secondo passaggio è far fuori il gruppo del “potere operaio”. E’ un gruppo di operai che viene dallo SLAI cobas ed è apertamente schierato, anche se in modo confuso, per una organizzazione operaia che metta in discussione l’intero sistema capitalistico e non più per una organizzazione che si batta solo per “una vite in più o in meno” da montare sulle postazioni delle catene di montaggio. E’ il primo, molto confuso per la verità, tentativo degli operai di quello stabilimento di costruire un’organizzazione politica degli operai fuori dal sindacalismo ufficiale o alternativo.

La liquidazione del gruppo del “potere operaio” avviene con la sinergia aziendale e sindacale. Lo SLAI espelle il capo degli operai “politicizzati” e lo delegittima come delegato sindacale. L’azienda immediatamente dopo lo licenzia. La FIOM e gli altri sindacati non assumono nessuna posizione di difesa. Solo solidarietà formale. Gli operai non si muovono.

Terzo passaggio. Si ferma la fabbrica e si fanno, fino alla primavera 2008, corsi di formazione per tutti gli operai. L’unico obiettivo che hanno è la formazione all’asservimento: massiccia presenza dei guardiani nei reparti, limitazione dei diritti elementari, costrizione alla pulizia dei reparti, veri e propri corsi ideologici per costruire una mentalità tra gli operai che sia aziendalista e ubbidiente.

E’ l’inizio del “piano Marchionne”, non ostacolato dalla FIOM e non antipatico fino a quel momento, nemmeno a qualche sindacato alternativo.

Alla fine dei corsi ci si aspetta la cassa integrazione. Gli operai sono fuori dalla produzione da tempo, non si aspettano niente di buono.

Marchionne si gioca l’asso dei 316. S’inventa di sana pianta l’organizzazione di una struttura logistica nuova, esterna e lontana dallo stabilimento e vi trasferisce inizialmente 316 operai. Sono i più politicizzati. Tutti gli operai dei sindacati alternativi, qualche iscritto FIOM meno controllabile, tutti gli RCL (ridotte capacità lavorative), operai “scoppiati” per il lavoro in fabbrica.

E’ qui che Marchionne misura tutta l’inconsistenza dei sindacalisti e l’estrema debolezza degli operai. In due giorni piega l’opposizione dei 316 (solo ottanta partecipano effettivamente alla lotta) davanti ai cancelli dove stavano attuando il blocco delle merci per protesta. I sindacati sono lì solo pro forma. Lo SLAI e la FIOM, prima che la lotta inizi, già cominciano a parlare di cause legali contro l’azienda per il “confino” dei 316 a Nola, e quella sarà la loro unica iniziativa contro Marchionne.

Dopo questa sconfitta, la FIAT capisce che gli operai sono in rotta. Se ha piegato Pomigliano sarà ancora più semplice negli altri stabilimenti.

La crisi avanza e il lavoro è molto ridotto, ci sono lunghi periodi di cassa integrazione. Seppure volessero utilizzare l’arma dello sciopero, indipendentemente dai sindacalisti, gli operai misurerebbero quanto essa sia spuntata quando il padrone non ha bisogno della produzione. La crisi impone, se si vuol fare sul serio, di privilegiare alla classica azione di 4 o 8 ore di fermata, altre forme di lotta come lo sciopero ad oltranza ed il blocco dei cancelli, cose che finora a Pomigliano sono del tutto mancate.

Dopo infatti c’è stato il referendum a Pomigliano e poi a Mirafiori e la generalizzazione delle condizioni di asservimento che Marchionne ha fatto passare a Pomigliano, ma è ormai una strada in discesa per l’amministratore delegato.

La situazione oggi.

Fuori dallo stabilimento rimangono circa tremila degli occupati di una volta a Pomigliano. In più ci sono gli ex Ergom di Poggioreale il cui stabilimento è stato chiuso e in origine dovevano essere integrati nella FIAT. Dentro lavorano duemilacento addetti circa. Sono quelli che Marchionne ha deciso di impegnare. Sono quelli senza tessera sindacale o iscritti ai sindacati apertamente filo padronali. Nessuno della FIOM è stato riassunto. Tantomeno quelli dei sindacati alternativi. I ritmi sono impossibili, le condizioni di lavoro complessivamente negative. Su questo richiamiamo le due interviste a operai FIAT attualmente occupati nello stabilimento pubblicate su Operai Contro telematico (http://www.operaicontro.it/) in data 25 maggio 2012, n. 128-12 e in data 12 luglio 202, n. 150-12.

Oggi, La FIAT di Pomigliano rappresenta, dal punto di vista dei padroni, lo stabilimento più avanzato d’Europa.

Producono, con circa il 40% degli addetti di prima,  quasi la stessa produzione (“solo” il 15% in meno circa rispetto a prima). La produttività è alle stelle e il costo del lavoro è bassissimo. Eppure le nuove Panda, le auto che producono a Pomigliano, non si vendono lo stesso. Ad agosto ci saranno due settimane di cassa integrazione. La crisi si aggrava ma non si risolve.

In prospettiva tutti gli stabilimenti italiani si uniformeranno alla FIAT di Pomigliano. E’ una questione di tempo.

Gli operai devono cominciare a pensare alla loro condizione in funzione di quell’esperienza e ad organizzarsi di conseguenza. Tutte le organizzazioni precedenti hanno dimostrato la loro inconsistenza. Non è più tempo di scioperi per finta, di concertazione, di passeggiate con fischietti e tamburelli, o di “cause legali” contro il padrone. Bisogna trovare altre strade. “Quei” sindacati sono destinati a sparire, anche fisicamente. Dove andranno i sindacati alternativi senza iscritti, e dove andrà la stessa FIOM? A Pomigliano nella nuova fabbrica non hanno più nessuno e zero tessere.

A Pomigliano si concretizzano le nuove condizioni della classe operaia in Europa nel prossimo futuro.

Franco Rossi

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