LE FABBRICHE E LE PALESTRE

LE FABBRICHE E LE PALESTRE di  Enzo Acerenza scarica qui in formato pdf. Ma quante chiacchiere si stanno facendo attorno alle scelte del governo sulle chiusure per fronteggiare la pandemia....

LE FABBRICHE E LE PALESTRE

di 

Enzo Acerenza

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Ma quante chiacchiere si stanno facendo attorno alle scelte del governo sulle chiusure per fronteggiare la pandemia. La questione è limpida, certo bisogna andare al di là delle apparenze, delle rappresentazioni della realtà alla moda che servono solo a coprire gli interessi di questa o quella banda di politici al potere o all’opposizione. E sappiamo che non è semplice. Ma non ci vogliono dei geni dell’analisi sociale per capire che il governo ha fatto una scelta chiara: la produzione non si tocca, il lavoro produttivo non deve subire scossoni, l’esposizione degli operai al coronavirus nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro è il prezzo che bisogna pagare. I capi industriali hanno dettato le regole, Bonomi capo di Confindustria per primo. Ma il governo sa che non si può lasciare libero sviluppo al contagio ed allora bisogna rallentare la sua circolazione all’esterno dell’industria, che sia piccola, media e grande. Sono i servizi, quelli legati al tempo libero, che si possono sacrificare entro certi limiti: non sono loro che estraggono l’oro dalle miniere, sono solo coloro che spennano i minatori nei bordelli delle città minerarie. E se per una pandemia sociale bisogna rallentare la circolazione è meglio iniziare da loro.
La cosa interessante che si scopre è che se c’è da scegliere fra la garanzia del profitto industriale e quello proveniente dalla vendita dei servizi, il governo, a nome dell’industria, è pronto a sacrificare quello del capitale investito nella circolazione, ristabilendo nei fatti che il plusvalore, la fonte vera di ogni categoria di profitto, si produce con la produzione materiale e il suo specifico agente, l’operaio produttivo. Garantita la possibilità di muoversi dell’operaio produttivo, che questo rischi di contagiarsi con i trasporti o nelle mense di fabbrica poco importa. L’importante questa volta rispetto ad aprile è che non si sollevi il problema del blocco dei centri di produzione, di qualunque dimensione siano. Una volta messo sotto coperta il capitale industriale, hanno messo mano a quella parte di lavoro impiegatizio funzionale alla produzione e qui gioca la riduzione dei costi fissi. Una parte del capitale impiegato in uffici, attrezzature informatiche, gestione diretta del personale viene scaricato sulle spalle dei dipendenti impiegati che, con lo smart working, trasformano la propria casa in ufficio dell’azienda a costo zero. Ma tutto è coperto dalla necessità di non circolare ai tempi del covid, anche se non è scritto nel virus che l’uso di casa propria per lavorare per “l’imprenditore” debba essere a fondo perduto, gratuito.
Una volta che gli operai sono giunti al lavoro, gli impiegati sono a casa loro impegnati a servire la produzione e la circolazione delle merci, rimangono due settori su cui intervenire per rallentare la trasportabilità del virus. In primis i luoghi dove si svolge la socialità a pagamento, dove si vive il tempo libero, per chi ce l’ha e per chi se lo può permettere. Qui è investito un capitale molto parcellizzato, rende un profitto, sfrutta una forza lavoro senza orari e diritti ma non produce plusvalore, non aumenta il valore del capitale sociale, fermare un bar del centro non è come fermare una fabbrica, nemmeno se è piccola. Il governo lo sa bene, e la Confindustria lo ripete all’orecchio del Ministro del lavoro tutti i giorni. Ma questa piccola imprenditoria ha la forza del numero, ha un esercito da mettere in campo, i suoi dipendenti conoscono una sola legge economica: se il bar è aperto e il padrone guadagna, a loro è garantito lo stipendio, per quanto basso, limitato e molte volte in nero. Appena i “titolari” hanno saputo di una nuova compressione delle loro possibilità di guadagno non ci hanno pensato su due volte per scendere in campo. Come c’era da aspettarsi li hanno seguiti i loro dipendenti che rischiano, questi sì, la fame, non i loro padroni che hanno delle riserve accumulate negli anni trascorsi. Hanno colto l’occasione di manifestare anche i veri e propri poveri da coronavirus, gente che non ha più potuto vendersi in nero, licenziati senza ammortizzatori sociali e sbandati. Una buona parte di questi manifestanti conosce una sola cosa per farsi valere: la forza, l’assalto ai palazzi, il blocco stradale. E così si sono presentati sulla scena. Il governo ha manovrato con furbizia, ha detto ai padroni, vi ristoreremo presto e bene. Vi daremo soldi freschi per coprire le perdite. Una manovra per dividere i padroni cosiddetti perbene dalla massa dei manifestanti arrabbiati, come al solito sommersi dalla condanna della violenza, inchiodati alla necessità assoluta di manifestare pacificamente. L’opposizione al governo ha potuto usare così le manifestazioni igienizzate contro il governo: i soldi dei ristori sono pochi – hanno gridato. Guarda se hanno gridato la stessa cosa di fronte all’offerta di Bonomi di un aumento di 40 euro al mese per gli operai metalmeccanici.
La parte oscura della rabbia ha assunto in ogni città riferimenti diversi, nelle grandi città industriali i precari, i poveri, i migranti hanno dato alle proteste un contenuto antipadronale, nelle città della piccola borghesia rovinata dalla crisi la reazione al sistema ha avuto come riferimento le nuove formazioni fasciste cresciute sotto la copertura dei vari Salvini e Meloni. La domanda più immediata che viene è dove finiranno, dopo che i padroni hanno incassato i ristori, i loro dipendenti in nero o a sfruttamento legale? La fanteria delle notti di fuochi delle città dove finirà? Prenderanno la cassa integrazione, anche se sono irregolari? E nelle aree del meridione sono tanti. Lo sanno tutti che il livello della cassa è molto più basso dei ristori, come sempre al padrone il boccone più sostanzioso. Qui, ad avere un sindacato serio ed un movimento degli operai maturo, bisognava intervenire e prendersi in carico questo settore di proletari dei servizi, chiedere anche per loro l’integrazione salariale ed un aumento della copertura salariale per tutti. Ma conviene a tutti tenere legati i dipendenti ai loro padroni, nelle piccole come nelle grandi imprese. Il salvare l’economia è la bandiera che permette ai padroni di sfruttare il più possibile i propri operai e tenerli soggiogati.

Ma anche da questi giorni c’è da imparare: come sanno piangere miseria i piccoli e medi padroni della ristorazione, come sanno presentare il non guadagno come l’anticamera della rovina, e come hanno fatto valere subito in piazza, con metodi non proprio pacifici, i loro interessi. Non conta per questi il guadagno passato, le proprietà, le spese per la bella vita, i conti correnti. Forse per un mese non avranno lo stesso guadagno o non guadagneranno niente, ma non sono sicuramente alla fame eppure sono comunque sul piede di guerra. Perché c’è da imparare da parte operaia? Perché noi, a confronto, siamo stati scemi, abbiamo introiettato talmente il vivere al limite della miseria che ci siamo accontentati per decine di anni della cassa integrazione. Perché non abbiamo incendiato niente quando ci licenziavano, accettando un lockdown economico giustificato non da una pandemia ma dal profitto del padrone? Perché come operai metalmeccanici abbiamo accettato un blocco salariale che dura da 20 anni ed oggi, quando ci hanno offerto 40 euro al mese di aumento, rispondiamo se va bene con uno sciopero di quattro ore?
Ma c’è tempo, tanto il problema del covid non si risolve, il governo ha scelto di salvaguardare il capitale industriale prima di tutto, ha sacrificato padroni, padroncini dei servizi, tutta la socialità a pagamento, dai bar alle palestre, ma li sta ristorando pescando nelle casse dello Stato – per inciso tutti questi soldi qualcuno dovrà reintegrarli e il rischio di bancarotta dello Stato è sempre presente. Il contagio come nella prima fase si annida nei luoghi di lavoro, gli operai e le loro famiglie saranno i più esposti, gli operai dovranno affrontare non solo la pandemia ma anche la miseria che essa produce, se inizieranno vere azioni di protesta potranno cercarsi come alleati tutti quei lavoratori precari e poveri che la pandemia butta in mezzo ad una strada e che hanno anche loro la necessità di ribellarsi. La condizione di base è che gli operai dell’industria rompano la gabbia di perbenismo sindacale e politico che li lega ai loro padroni. A questo proposito non bisogna dimenticare che la responsabilità della strage da coronavirus che colpì la bergamasca è da addebitare prima di tutto ai bravi padroni, soci di Confindustria, che si opposero alla chiusura delle loro fabbriche. Ripercorreranno la stessa strada se non li fermeremo.

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