Reintegro per la FCA
A libro paga fuori dalla fabbrica
la potente legge uguale per tutti non prevede per i padroni l’esecuzione forzata
di Andrea Vitale
La vicenda giudiziaria dei cinque operai FCA di Pomigliano, licenziati per aver inscenato il finto suicidio di Marchionne in segno di protesta contro il reale suicidio di due loro compagni di lavoro cassintegrati, continua ad essere una fonte inesauribile di spunti di riflessione sul diritto e sull’intero sistema giuridico italiano, rivelandone il fondamento di classe.
E’ noto che la Corte di Appello di Napoli (sentenza n. 6038/2016 del 27/09/2016)[1] ha ribaltato i due precedenti pronunciamenti del Tribunale di Nola (Decreto di rigetto n. 18203/2015 del 04/06/2015 e Sentenza n. 993/2016 del 05/04/2016)[2], che avevano in un primo momento dichiarato legittimo il licenziamento dei cinque operai. La sentenza dei giudici di appello ha il grande merito di aver smontato punto per punto le argomentazioni dei giudici di primo grado, dimostrando come la protesta messa in atto dagli operai sia stata una legittima manifestazione del diritto di esprimere la propria opinione critica. In questo modo, i giudici hanno dato ragione alla numerosa schiera di intellettuali e giuristi che avevano solidarizzato con la lotta degli operai licenziati in nome della difesa della libertà di critica e di satira[3], che i giudici di Nola avevano inteso invece limitare fortemente per i lavoratori dipendenti. Su questo punto, bisogna dirlo con franchezza, la sentenza di appello però non ci soddisfa. Mentre, nella valutazione delle azioni di protesta compiute dagli operai, giustamente i giudici di secondo grado hanno spiegato come e perché i cinque non avessero mai superato i limiti della continenza formale e sostanziale, sul piano del principio generale del presunto obbligo di fedeltà, essi hanno confermato in pieno la lettura estensiva che di tale obbligo ci ha dato la Cassazione. Per quanto riguarda la critica di questo sviluppo della giurisprudenza, che è bene dirlo non trova fondamento in nessun esplicito articolo di legge, rimando alla lettura dell’articolo “Il diritto del lavoro il diritto del più forte”(http://operaieteoria.it/2016/04/il-diritto-del-lavoro-il-diritto-del-piu-forte/). Vale la pena solo sottolineare, però, che il Tribunale d’Appello di Napoli così facendo finisce unicamente con l’intervenire sul caso particolare, reintegrando gli operai licenziati, vittima di una evidente ingiustizia (cosa ovviamente non da poco), ma non interviene proprio sul principio generale in base al quale tale ingiustizia era stata perpetrata, sia da parte della FCA che del Tribunale di Nola. Resta così aperta la possibilità di trovarsi di fronte a nuovi licenziamenti tesi a punire l’esercizio della libertà di opinione dei lavoratori.
L’ulteriore sviluppo della situazione di Mignano e compagni ci offre però altri elementi di riflessione su cui è necessario soffermarsi.
I giudici di appello hanno, come abbiamo già scritto, dichiarato l’illegittimità del licenziamento, disponendo sia il pagamento delle mensilità arretrate non corrisposte dopo il licenziamento, sia il reintegro degli operai. Su entrambe le due disposizioni abbiamo alcune cose da dire.
Partiamo dalla prima. La Corte ha disposto a favore degli operai “il risarcimento del danno dagli stessi subiti in misura pari alle retribuzioni maturate per il periodo intercorso tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione, nella misura massima di dodici mensilità di retribuzione” (sottolineatura nostra). Quindi, poiché il licenziamento è scattato a giugno 2014 e la reintegra è intervenuta solo a settembre 2016, i mesi totali senza retribuzione sono 26, a cui vanno aggiunte le tredicesime ed i premi di produzione, ma di questi 26 e passa mensilità agli operai ne sono stati restituite solo 12, con una perdita netta superiore a 14 mensilità. Più di un anno intero di reddito è volato via! A questo va aggiunto che la FCA ha erogato questo risarcimento trattenendo arbitrariamente[4] le quote di TFR (liquidazione) che aveva dovuto corrispondere agli operai all’atto del licenziamento. Insomma, gli operai, dopo tanto penare si sono ritrovati con quattro soldi in tasca. Per chi ha fatto la fame per due anni e mezzo, in molti casi indebitandosi fino al collo per far campare la famiglia, subendo sfratti ed esecuzioni forzate per morosità, significa non avere nessuna possibilità per rimettersi in linea con la normale, anche se povera, gestione del bilancio domestico delle famiglie operaie. Chi è colpevole di una simile nefandezza? Sicuramente qui esiste una responsabilità dei giudici, in quanto è evidente a tutti la natura discriminatoria e ritorsiva del licenziamento dei cinque operai. Mignano già aveva subito altri due licenziamenti, dichiarati tutti illegittimi dalla magistratura, e praticamente è tenuto fuori dalla fabbrica da oltre 10 anni. Un altro precedente licenziamento, poi annullato dalla magistratura, “vanta” anche Marco Cusano. Tutti e cinque gli operai aderiscono, per alcuni di loro anche con incarichi dirigenziali, ad un sindacato di base. Ce ne era abbastanza per applicare nei loro confronti le misure di tutela che la cosiddetta legge Fornero (legge 92/2012) prevede per i licenziamenti discriminatori e cioè il reintegro ed il pagamento di tutte le mensilità non date dopo il licenziamento (cosiddetta tutela reintegratoria piena). Per gli altri licenziamenti illegittimi, la Fornero, con una sadica fantasia, prevede altre tre tipologie di tutele. La prima (tutela reintegratoria attenuata) prevede sì il reintegro, ma con un risarcimento ridotto, pari a massimo 12 mensilità. Per la seconda (tutela risarcitoria piena) e la terza tipologia (tutela risarcitoria attenuata) non esiste più il reintegro, ma solo un risarcimento, pari per la seconda tipologia ad un indennità uguale ad un importo che può andare dalle 12 alle 24 mensilità (alla faccia del risarcimento “pieno”!), mentre per la terza l’indennizzo scende a massimo12 mensilità. Nel caso in questione, dei cinque operai di Pomigliano, i giudici, constatata “la completa irrilevanza giuridica del fatto” che aveva provocato i licenziamenti, cosa che quindi “equivale alla sua insussistenza materiale”, hanno applicato, nella misura massima prevista dalla legge, la tutela reintegratoria attenuata: oltre al reintegro ai cinque è stato riconosciuto un risarcimento pari a 12 mensilità. Quindi il costo della lentezza della giustizia italiana ricade non su chi ha commesso un atto illegittimo, licenziando arbitrariamente un lavoratore, ma sul lavoratore stesso, cioè sulla vittima! E per i cinque operai le cose potevano andare anche peggio. Se il caso si fosse risolto per loro positivamente non in Appello, ma in Cassazione, minimo cioè fra altri tre anni, a fronte di più di cinque anni di mancate retribuzioni, il risarcimento massimo sarebbe potuto essere sempre e solo di 12 mensilità. E pensare che c’è chi ancora insiste a propinarci la favola che il diritto del lavoro ha la sua ragion d’essere nella tutela del “lato debole” del contratto lavorativo, cioè il “prestatore di lavoro”, il lavoratore! Questo concetto deve essere stato evidentemente molto “chiaro” e presente a tutti quei politici italiani che hanno elaborato e approvato la “riforma” Fornero, tanto da inventarsi addirittura la possibilità che un atto, il licenziamento, per quanto riconosciuto illegittimo, possa non essere annullato e si possa ricevere in cambio solo un bassissimo e miserabile risarcimento. E’ proprio l’aver approvato e sostenuto queste efferate e vergognose norme a mostrarci in maniera indiscutibile che tutti costoro sono al completo servizio dei padroni e che il giochetto di Bersani e compagni di tutelare i licenziamenti discriminatori (difficilissimi da dimostrare, come il caso Mignano dimostra) serviva solo a confondere le carte e a far passare la sostanza dei provvedimenti.
Passiamo a considerare invece la seconda disposizione dei giudici. “La Corte – recita la sentenza – … dichiara l’illegittimità dei licenziamenti impugnati, annulla i recessi e condanna la società reclamata alla reintegrazione dei lavoratori reclamanti nel pregresso posto di lavoro”. Dunque, per dare esecuzione alla sentenza, i cinque operai dovrebbero essere rientrati negli stessi posti di lavoro da cui erano stati allontanati. Per quattro di loro si tratta del reparto confino di Nola. Per Mimmo, che a seguito dei licenziamenti accumulati praticamente senza soluzione di continuità, non è mai stato trasferito a Nola, la sede di appartenenza è rimasto lo stabilimento madre di Pomigliano, il G. B. Vico. Eppure a tutt’oggi nessuno dei cinque ha potuto svolgere una sola giornata lavorativa. Pur essendo regolarmente pagati dall’azienda, sono tenuti da questa a casa. Ognuno di loro infatti agli inizi di novembre ha ricevuto una lettera raccomandata della FCA che, dopo aver annunciato la loro reiscrizione nel libro paga dell’azienda, concludeva così: “Sulla scorta delle attuali esigenze organizzative e fino a nuova disposizione, Ella è dispensato dal rendere la prestazione lavorativa, venendoLe comunque garantito il normale trattamento retributivo”. Dunque, il giudice ha ordinato il reintegro nel posto di lavoro dei cinque operai e la FCA si è rifiutata di eseguirlo! Una palese violazione di quanto disposto nella sentenza, non potendo in nessun caso essere considerata sufficiente la sola iscrizione al libro paga. Non siamo noi a dirlo, ma, e in più occasioni, la stessa Suprema Corte: “ottemperare all’ordine di “reintegrazione nel posto di lavoro” non può significare limitarsi a pagare la retribuzione e a permettere lo svolgimento dell’attività sindacale, ma significa ripristinare il rapporto di lavoro nella sua pienezza, consentendo l’esercizio dell’attività lavorativa” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 18-06-2012, n. 9965).
Ma come mai la Fiat-FCA si permette con tanta assoluta protervia di non eseguire un ordine del tribunale? Cosa rende così sicuri i dirigenti FCA di non subire le conseguenze legali di una tale insubordinazione e mancanza di rispetto verso le istituzioni? Siamo forse di fronte alla solita ottusa arroganza della grande multinazionale che, forte dei suoi bilanci e dei ricatti occupazionali da mettere in campo, non teme di sfidare le leggi dello Stato? Certo questo elemento è presente e la Fiat non è nuova in questi comportamenti. Ricordiamo il caso recente, che ci ha visto impegnati in prima persona nella campagna di sostegno e denuncia, dell’operaio del reparto confino di Nola, Rosario Monda[2]. Questi, dopo essere stato licenziato per la sua attività sindacale, malgrado fosse stato reintegrato dai giudici con provvedimento passato in giudicato, è stato tenuto per più di un anno fuori dalla fabbrica, senza salario e senza risarcimento, nella speranza, forse, che preso dalla disperazione avanzasse qualche ipotesi di transazione. Solo dopo che si è riusciti a far scattare procedimenti forzati di recupero crediti e a portare il caso all’attenzione della stampa nazionale, l’operaio Fiat è stato reintegrato. La vicenda di Mimmo Mignano e degli altri quattro operai ha però avuto una tale risonanza nazionale, una tale visibilità mediatica, da farci escludere che il rifiuto dell’azienda di eseguire la sentenza sia frutto diretto di una linea di condotta simile a quella messa in atto contro Rosario Monda. Non è pensabile che la Fiat sottovaluti il negativo impatto sulla propria immagine che la riedizione di un tale comportamento avrebbe comportato e non è un caso che siano scattati subito per questi operai (anche se con i limiti che abbiamo messo in evidenza sopra) iscrizione al libro paga e versamento dei risarcimenti.
Dobbiamo allora credere che la Fiat speri nell’accettazione passiva da parte dei cinque della situazione, pensando che Mimmo e compagni si accontenteranno opportunisticamente di essere pagati senza lavorare? E’ difficile anche solo immaginare una tale miopia da parte della FCA, che dimostrerebbe così di non aver assolutamente compreso che tipo di avversari si trova di fronte. Per chi ha affrontato tutti questi anni di estremo sacrificio, senza cedere di un millimetro per far valere il proprio diritto di criticare il padrone, cosa può mai significare una temporanea condizione di presunto privilegio di fronte all’obiettivo primario di rientrare concretamente a far parte del corpo degli operai di fabbrica, da cui la Fiat con tanta ostinazione li vuole tenere separati? La continua presenza dei cinque fuori i cancelli di Pomigliano e Nola, la loro denuncia delle condizioni lavorative in fabbrica, la loro pressante richiesta a gran voce di poter rientrare effettivamente al lavoro sono una immediata smentita di queste meschine illusioni.
Ma allora su cosa si basa l’ostentata tranquillità con cui la FCA si rifiuta di dare esecuzione ad una sentenza? La risposta potrà risultare sconcertante per chi ingenuamente crede nella neutralità delle leggi e nel ruolo super partes della magistratura: è la stessa giurisprudenza a garantire l’impunità delle aziende che si rifiutano di eseguire gli ordini di reintegro dei lavoratori illegittimamente licenziati. Siamo cioè di fronte ad un vero e proprio corto circuito del diritto borghese, che da un lato, applicando le leggi vigenti (ovviamente qui facciamo astrazione dall’ulteriore gravissimo peggioramento del quadro normativo segnato dal Jobs Act di Renzi, che ha di fatto cancellato l’articolo 18 per tutte le assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo il 7 marzo 2015), impone il reintegro e dall’altro ammette e giustifica la propria incapacità a far eseguire quanto ha disposto.
Guardiamo la cosa più da vicino.
Innanzitutto scopriamo che già da molti anni (ad es. Cass. Sez. 3, 23 -6-75, Preziuso, Giust. Pen 1976, 2, 276), la Cassazione, in sede penale, ha affermato che non costituisce reato (in particolare, quello previsto dall’art. 388, comma 2, c.p., che punisce la “mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”) la mancata ottemperanza all’ordine del giudice civile avente ad oggetto la reintegrazione di un dipendente licenziato. Le sentenze più recenti che ribadiscono questo concetto sono Cassazione, sezione VI penale, n. 33907 del 06/09/2012 e Cassazione, sezione L civile, n. 6777 del 02/04/2015. Qui non ci interessa soffermarci sui sottili ragionamenti con cui la Cassazione fonda questo suo orientamento, ci basta rilevare come in questo modo si metta al riparo da possibili e temibili conseguenze penali i datori di lavoro che decidono di non rispettare quanto gli viene imposto da una sentenza. Unicamente riferendoci al caso specifico e solo al fine di mettere in evidenza come risultino capziosi questi pronunciamenti della giurisprudenza sulla base delle sue stesse premesse, si deve far notare che la mancata effettiva reintegrazione potrebbe tranquillamente essere ricondotta ad una condotta (articolo 388 comma 1 c. p.), tesa ad impedire la libera attività sindacale del lavoratore reintegrato (vedi Cass. sez. I pen. 27/1/2005 n. 2603, in cui si afferma che il mancato reintegro configura il reato previsto dall’art. 388 c. p. “sempre che sussistano gli elementi della condotta tipica”), poco importa, a nostro parere, qui che il tribunale non abbia riconosciuto la discriminazione sindacale palesemente insita nel licenziamento dei cinque operai di Pomigliano. Infatti, la Cassazione ha affermato che un licenziamento, adottato in assenza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo”, assume “un significato probante della esistenza di una condotta volta a limitare in maniera diretta ed incisiva l’esercizio dell’attività sindacale attraverso l’atto finale del licenziamento del suo dipendente” (Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2003, n. 1684). Il fatto che l’orientamento prevalente della giurisprudenza dia torto a questa nostra interpretazione dà il senso di cosa significhi imparzialità nel nostro sistema giudiziario.
Ma il ragionamento, per cui la stessa magistratura rende lettera morta le ordinanze di reintegro da essa stessa emanata, è più ampio e generale di quanto si possa immaginare, essendo la questione della non rilevanza penale della condotta dell’imprenditore, che si rifiuta di ricollocare al lavoro il lavoratore reintegrato dal giudice, solo uno degli aspetti della questione. Infatti l’orientamento generale della giurisprudenza è ben sintetizzato in una sentenza della Suprema Corte: “L’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice “pati”) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo – funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione (Cass. n. 9125 del 1990 e n. 112 del 1988)” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 18-06-2012, n. 9965)
Dunque, per la stessa magistratura, l’ordine di effettivo reintegro, da lei stessa emesso sulla base della legge, è un ordine incoercibile!
Spieghiamo meglio come il diritto borghese giustifica questo, a dir poco bizzarro, suo comportamento. Un principio generale valido in quasi tutti gli ordinamenti giuridici è quello sintetizzato da un antico brocardo del diritto romano: “nemo ad factum cogi potest”, cioè “nessuno può essere costretto a un fare”, quindi lo stato non può obbligare nessun individuo a compiere un’azione contro la sua volontà. Esistono però azioni fungibili, che cioè possono essere compiute da un’altra persona, che si sostituisce all’obbligato, ed azioni infungibili, che cioè possono essere eseguite unicamente e personalmente dall’obbligato. Questo tipo di azioni sono perciò incoercibili, cioè non si possono imporre senza il consenso di chi è tenuto all’obbligazione. Ebbene, per la giurisprudenza l’effettivo reintegro da parte di un imprenditore di un lavoratore, illegittimamente licenziato, si configura come un’azione infungibile, che cioè per avvenire richiede un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro, di carattere organizzativo – funzionale, mirato alla pianificazione dell’attività lavorativa, mediante l’assegnazione di compiti e/o mansioni, l’emanazione di disposizioni direttive e di controllo, ecc. L’effettivo reintegro nel proprio posto di lavoro, previsto esplicitamente dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non può quindi essere realizzato mediante una procedura di esecuzione forzata ed è quindi destinato a restare lettera morta se il datore di lavoro si rifiuta di eseguirlo, cosa che questi può tranquillamente fare senza timore di subire conseguenze penali. Basta quindi che l’azienda sia sufficientemente grande da poter sostenere, senza il corrispettivo della prestazione, la spesa degli stipendi dei lavoratori ingiustamente estromessi, per rendere pure chiacchiere quanto previsto esplicitamente dalla legge e deciso dal tribunale. Una resa totale, incondizionata e per giunta proclamata senza vergogna alcuna dello Stato nei confronti del singolo capitalista.
Ma è proprio vero che l’atto di reintegro effettivo di un lavoratore licenziato è un’azione infungibile, tale cioè da poter essere compiuta unicamente dall’imprenditore colpevole di averlo ingiustamente licenziato? Cosa mai impedisce che il reintegro non sia imposto da un commissario ad acta nominato dal giudice? Quali sono le difficoltà tecniche e materiali che impediscono una tale soluzione? In verità nessuna. Tendenza storica del capitalismo è la separazione della proprietà del capitale dalla direzione dell’impresa. Via via che aumenta la concentrazione dei capitali e la dimensione delle imprese, il capitalista agente si trasforma in un semplice proprietario di azioni, mentre la funzione di direzione dell’azienda viene affidata a personaggi specializzati, retribuiti dai capitalisti proprietari. Dunque, se già il corso naturale e spontaneo dello sviluppo capitalistico delega a terze persone la gestione dell’impresa, perché mai l’esecuzione di un singolo semplice compito, la ricollocazione del lavoratore licenziato, non potrebbe essere opera di qualcuno diverso dal capitalista, nominato per fare questo apposta da un giudice? Se poi pensiamo alla realtà della grande fabbrica, in cui l’organizzazione scientifica del lavoro fa sì che sia rigidamente e puntigliosamente predeterminata l’attività dell’operaio, che viene assegnato ad una postazione in cui sono già definite le operazioni da svolgere, le modalità in cui vanno svolte ed i tempi di esecuzione, ci si rende conto dell’estrema facilità del compito che spetterebbe ad un eventuale commissario ad acta. La riduzione dell’operaio a mera appendice cosciente del macchinario, processo che nel diritto viene eufemisticamente chiamato “spersonalizzazione dell’organizzazione del lavoro nella grande impresa”, rende possibile una continua girandola degli operai nei singoli reparti della fabbrica, perché oramai sostituire un operaio con un altro ha la stessa semplicità della sostituzione di una lampadina. Con la medesima facilità allora potrebbero essere reintrodotti in fabbrica i cinque operai di Pomigliano licenziati.
Ma cosa allora rende agli occhi dei magistrati infungibile e quindi incoercibile l’azione di reintegro degli operai licenziati? In assenza di un reale e concreto impedimento tecnico, l’unica motivazione rimasta è che una esecuzione forzata dell’ordinanza di reintegro significherebbe una violazione del potere esclusivo di direzione ed organizzazione che il capitalista e la struttura gerarchica al suo servizio possiedono. Potere incontrastato che trova il suo riconoscimento legislativo nell’articolo 41 della Costituzione e negli articoli del codice civile 2086, 2094 e 2104. Alla luce di ciò, possiamo dire che qui non ci troviamo di fronte ad una semplice abdicazione dello Stato, capitalista collettivo[6], nei confronti del capitalista individuale, come prima c’era parso. Consentendo al singolo capitalista la facoltà di non eseguire un ordine disposto dallo Stato stesso, lo Stato riconosce come suo proprio fondamento intoccabile il potere di asservimento e di dominio dei padroni nei confronti degli operai, rivelando chiaramente la sua natura borghese. Ciò che lo Stato non deve e non può mai mettere in discussione è il rapporto di sottomissione degli operai al capitalista.
Fermo restando il riconoscimento del carattere inviolabile del rapporto di dominio del capitalista sugli operai, resta però allo Stato il compito di imporre l’interesse generale dell’intera classe dei capitalisti nei confronti dell’interesse particolare del singolo capitalista. Per far questo, lo Stato non può rassegnarsi a riconoscere il carattere incoercibile di una obbligazione infungibile, deve in qualche modo imporre il suo potere e lo fa attraverso forme di coercizione indiretta, individuando cioè delle misure di dissuasione che spingono l’obbligato a compiere ciò che spontaneamente si rifiuta di fare. Nel caso particolare di incoercibilità della reintegra del lavoratore licenziato, in molti paesi sono previste misure di penalizzazione che colpiscono l’imprenditore che si rifiuta di adempiere al suo obbligo. Si ottiene così da un lato la conferma dell’inviolabilità della funzione di dominio assoluto del capitalista e dall’altro l’affermazione della forza dello Stato, capitalista collettivo, nei confronti del singolo capitalista. Tanto per fare alcuni esempi, in Francia abbiamo le astreintes, che consistono in una somma da pagare per ogni giorno di ritardo da parte dell’obbligato inadempiente qualora questo si rifiuti di ottemperare all’ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta. In Germania abbiamo le Geldstrafe, una sanzione pecuniaria per l’obbligato inadempiente, che in questo caso però non va versata al lavoratore ma allo Stato, da notare che in casi estremi esse prevedono anche l’arresto. In Inghilterra l’obbligato inadempiente può, su denuncia di parte, essere condannato per il reato di disprezzo della Corte.
E in Italia? Come è la situazione nel paese, secondo molti, con la Costituzione più bella e giusta del mondo e che ha avuto per quasi cinquanta anni il partito “comunista” più forte in Occidente? Ebbene, nella legislazione italiana non sono previste misure di coercizione indiretta atte ad imporre l’esecuzione dell’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato. L’unica blanda forma di coercizione indiretta la si riscontra nell’attuale comma 14 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, secondo il quale, nel caso del licenziamento illegittimo di dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, il datore di lavoro “è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore”. Eppure l’istituto della coercizione indiretta, se pur tardivamente, è stato introdotto in Italia nel 2009 dal governo Berlusconi. Si tratta di quanto è previsto dall’articolo 614 bis c.p.c., che impone il pagamento di somme di denaro per ogni ritardo nell’adempimento dell’obbligo, ma nell’articolo il legislatore si è affrettato a scrivere che tali disposizioni “non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”. Una ennesima dimostrazione della disgustosa condizione servile dei politici italiani nei confronti degli imprenditori, che li spinge fino a declarare l’assoluta impotenza dello stato nei confronti di un cittadino inadempiente. E non si dica che si tratta comunque di un provvedimento del centrodestra. Il governo Renzi, con la legge del 6 agosto 2015, n. 132, ha in pieno riconfermato l’articolo!
Sulla scorta di queste nostre considerazioni è evidente che la strada maestra per imporre l’effettivo reintegro dei cinque operai è e resta la mobilitazione e la lotta e non solo dei cinque, che già ci hanno dimostrato in questi anni la tenacia ed il coraggio di cui sono capaci, ma dei loro compagni di fabbrica. Su questa strada siamo certi che troveranno anche il consenso e l’appoggio dei tanti intellettuali ed artisti che si sono schierati al loro fianco nella battaglia per annullare i licenziamenti.
[2] https://nolicenziamentiopinione.files.wordpress.com/2016/07/1_decreto_mignano.pdf
https://nolicenziamentiopinione.files.wordpress.com/2016/07/2_sentenza_mignano.pdf
[4] Secondo la Corte di Cassazione, il datore di lavoro non può, unilateralmente e senza il consenso del lavoratore, recuperare somme che pretende essere dovute mediante trattenute sulla retribuzione (Cass. 7/9/93 n. 9388)
[5] “… lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze collettive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta” (F. Engels, Anti-Dühring, in Marx-Engels, Opere Complete, vol. XXV, p. 268, Editori Riuniti, Roma, 1974).